Corridoni, ritratto di un sindacalista rivoluzionario

Il ricordo di Benito Mussolini a due anni dalla scomparsa dell’eroe e amico

Nel secondo anniversario della morte di Filippo Corridoni, il 29 ottobre 1917, Benito Mussolini volle tracciarne un profilo per ricordare la bella figura di sindacalista rivoluzionario e interventista, caduto mentre combatteva al fronte.

Con Corridoni, Mussolini aveva condiviso una intensa passione sociale nonché la pulsione interventista: i due avevano molto in comune, ivi compreso lo slancio verso quel conflitto che entrambi reputavano indispensabile per la Nazione.

Corridoni partì, come Mussolini, volontario nella Grande Guerra. È lì che i destini dei due si separano: Mussolini resterà ferito e dovrà rinunciare alla guerra in prima linea, Corridoni resterà ucciso. Partito nel luglio del 1915, scrisse a Benito: “Carissimo, fra pochi istanti partiamo per la linea del fuoco. Viva l’Italia! In te bacio tutti i fratelli delle battaglie di ieri sperando nell’avvenire”.

Morì in battaglia, Filippo Corridoni, con il viso rivolto al nemico: una pallottola lo colpì in piena fronte. Profetiche le sue parole: “Morirò in una buca, contro una roccia o nella corsa di un assalto ma, se potrò, cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora!”.

Di seguito il testo di Benito Mussolini, pubblicato dal Popolo d’Italia il 29 ottobre 1917.

“Leviamoci per un momento dalle bassure della vita politica parlamentare; dimentichiamo per un momento Montecitorio e i suoi ciarlatori molesti; allontaniamoci da questo spettacolo mediocre e sconfortante; andiamo altrove col nostro pensiero che non dimentica; portiamo altrove il nostro cuore, le nostre angosce segrete, le nostre speranze superbe, e inchiniamoci sulla pietra che, nella desolazione dell’altipiano di Trieste, segna il luogo dove Filippo Corridoni cadde, in un tumulto e in una invocazione di vittoria.

Sembra lontano quel giorno, poiché le distanze cronologiche non hanno più il senso di questa vicenda tragica, ma non sono in realtà, secondo la vecchia misura, che passati due anni. Due anni, dalle giornate di maggio che videro nelle strade di Milano le moltitudini immense acclamare alla necessità del sacrificio più grande; due anni dalla sera della partenza dei volontari milanesi. E c’era già nell’addio di Corridoni, quasi il presagio certo dell’imminente destino: due anni oggi dalla giornata di combattimento che prende il nome della “Trincea delle Frasche” e nella quale Corridoni chiuse nel sangue la sua vita di passione.

Ciò che v’è di eccezionale, di meraviglioso, nell’interventismo italiano, è il suo carattere popolare. Movimento di folle anonime, non di partiti organizzati. E l’eresia, che per un miracolo nuovo afferra le masse meno ortodosse del neutralismo conservatore, sovversivo, viene schiantata d’assalto.

Nel maggio del 1915 il popolo si riconcilia con la Patria e comprende, per una intuizione sicura, il valore grande di quel tesoro che aveva misconosciuto e disprezzato. Il popolo, che era stato da cinquant’anni un assente, rientra, s’inserisce nel corpo vivo della storia d’Italia. Gli uomini che danno la voce a questo movimento, sono dei fuorusciti, degli insofferenti, degli inquieti, ma soprattutto degli idealisti e dei disinteressati.  L’interventismo porta alle origini questo sigillo di nobiltà.

Che cosa chiedevano questi interventisti? Forse la guerra per profittarne? No: domandavano di combattere; si preparavano a morire. Affrontavano comunque l’ignoto. In Filippo Corridoni l’interventismo nacque dall’impulso di difesa della latinità contro la tribù barbara dai piedi piatti, come diceva Blanqui, che ha tentato ancora una volta di scendere dalle sue pianure nebbiose verso le spiagge solatie del nostro Mediterraneo. In Filippo Corridoni l’interventismo prorompe dalla rivolta istintiva, spontanea, contro l’oppressione e l’ingiustizia a danno dei popoli deboli e inermi.

Ma l’interventismo di Filippo Corridoni non si spiega soltanto con questi e altri motivi; e questi motivi ne suppongono un altro: il temperamento, l’animo di Corridoni. Egli era un nomade nella vita, un pellegrino che portava nella sua bisaccia poco pane e moltissimi sogni, e camminava così, nella sua tempestosa giovinezza, combattendo e prodigandosi, senza chiedere nulla. Qualche volta un’ombra di malinconia gli oscurava la fronte. Qualche volta la stanchezza delle piccole cose e dei piccoli uomini gli tremava nella voce. La guerra fu sua, perché era una guerra di liberazione e di difesa; ma anche perché la guerra chiede e impone la tensione, lo sforzo, il sacrificio.

 

“Un nomade nella vita, un pellegrino che portava nella sua bisaccia poco pane e moltissimi sogni”

Non si tradiscono i morti

“Non lo sentimmo mai così vivo, così presente nella nostra ingrata fatica. La sua effigie ci guarda in silenzio”

In questa guerra che deve decidere le sorti dell’umanità per almeno un secolo, in questa guerra, eminentemente rivoluzionaria, non nel senso politicante della parola, ma per il fatto che tutto è in giuoco, che tutto è in pericolo e molto andrà sommerso, e molto sarà rinnovato, il posto di Filippo Corridoni non poteva essere fra i negatori solitari e infecondi in nome delle ideologie di ieri, o fra i pusillanimi che sono contrari alla guerra, perché la guerra interrompe o turba le loro abitudini, o documenta la loro infinita vigliaccheria. Filippo Corridoni fu l’anima dell’interventismo popolare.

Convinse, commosse, trascinò. Volle che alla predicazione seguisse l’azione, e ne partì volontario. Volle deliberatamente entrare in combattimento. Era in lui, mentre correva alla prima trincea austriaca del Carso, una disperata volontà di immolazione, e quando la trincea fu espugnata, egli balzò in piedi sul parapetto gridando nell’oblio totale di se stesso: — Vittoria! Vittoria! Viva l’Italia! — E cadde fulminato nella morte dolce che non corrompe le carni, e non fa più soffrire… Si vuole che nei primi tempi del cristianesimo i fedeli del Nazzareno disseminati in Roma si comunicassero non col pane ma col sangue. Ognuno si incideva le carni in direzione del cuore; e il sangue veniva raccolto in un calice solo, che passava poi da labbro a labbro. Anche in noi, in nome dei nostri morti, vogliamo praticare la comunione del sangue.

Noi l’abbiamo raccolto il sangue che i nostri amici a mille a mille hanno versato senza paura e senza rimpianto. È sangue della migliore giovinezza d’Italia: sangue latino… Oh! poeta, la nostra Patria non è più vile. Gli adolescenti vanno incontro alla morte come a splendido convito. Che importa se, accanto a questa gloria, c’è un po’ di fango, e vi ruffianano dentro i più bassi e più turpi esemplari della politica?

Noi guardiamo in alto. Noi guardiamo a Filippo Corridoni. Non lo sentimmo mai così vivo, così presente nella nostra ingrata fatica. La sua effigie ci guarda in silenzio. Ma noi prendiamo quel cuore, noi dissuggelliamo quelle labbra, noi strappiamo l’anima alla corruzione della materia; contendiamo all’oblio la perennità del ricordo; chiediamo alla morte il grido della vita, e lo scagliamo in faccia a quelli che meditano il tradimento. Non si getta il fardello prima di avere toccato la mèta. Non si tradiscono i morti”.

a cura di Emma Moriconi

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