Trump, l’immigrazione e il fantasma del “razzismo”

di Stefano Magni

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Tuttavia, il contenuto del decreto presidenziale è pubblico, come pure sono noti i suoi primi effetti. E ben poco di quel che abbiamo visto finora ha un qualche lontano riscontro con la realtà. Prima di tutto, il decreto di Trump sull’immigrazione blocca temporaneamente, per soli tre mesi, la concessione di nuovi visti ai cittadini di sette paesi: Iran, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Sudan, Yemen. Si tratta di paesi in cui le ambasciate statunitensi non operano o operano in modo discontinuo, dove, quindi, non è possibile effettuare uno screening preventivo accurato di chi fa domanda per accedere agli Usa. Quattro di questi paesi, Libia, Iraq, Siria e Yemen, sono divisi da una guerra civile in cui combattono grandi formazioni di terroristi jihadisti. Uno di questi, l’Iran, non ha relazioni con gli Usa (che Teheran considera il “Grande Satana”). Si noterà che in questa lista mancano altri paesi su cui gravano sospetti fondati di collusione con il terrorismo internazionale, quali Arabia Saudita, Qatar e Pakistan. Ma in essi operano regolarmente le ambasciate americane, con il loro personale. Quindi il carattere del decreto non è pregiudiziale, ma risponde a un’esigenza concreta: rivedere i parametri di sicurezza e, per tre mesi, bloccare la concessione di nuovi visti.

Il decreto non è “illegale”, né “anticostituzionale”. Prima di tutto perché, sui cittadini stranieri e le politiche di immigrazione decide il Presidente e nessun altro organo. Secondo, perché la legge sull’immigrazione attualmente in vigore, alla sezione 1182(f) prevede che il presidente possa ridurre o bloccare la concessione di visti per persone provenienti da paesi che costituiscano un pericolo per la sicurezza nazionale. La legge del 1965, che viene citata spesso in questi giorni, non può essere intesa come divieto di restrizione (per motivi di sicurezza), ma come divieto di discriminazione su base etnica e religiosa, che è ben altra cosa. Il giudice federale Ann Donnelly non ha contestato la costituzionalità del decreto, ma semmai la sua applicazione a persone dotate già di regolare permesso e bloccate in modo erroneo da zelanti funzionari della dogana. In effetti, però, il problema ha riguardato circa 109 persone su tutti i passeggeri di tutti gli aeroporti americani, delle quali solo una ventina (nel momento in cui viene scritto questo articolo) sono ancora bloccate alla dogana. Un fatto spiacevole, sicuramente. Ma non una tragedia internazionale.

Viene contestato anche il nuovo limite massimo di rifugiati ammessi negli Usa, fissato a 50mila unità. Ma guardando alla storia dell’accoglienza negli Stati Uniti, questo numero è nella media. E’ solo l’amministrazione Obama e unicamente negli ultimi due anni, ad aver alzato questa soglia per motivi eccezionali (guerra in Siria). Non è neppure straordinario, ma nella norma, il blocco delle richieste di asilo dalla Siria: è la stessa politica perseguita dallo stesso Obama dal 2011 al 2015. Solo gli ultimi due anni hanno fatto eccezione e il 2016 è l’unico anno in cui i rifugiati sono stati ammessi nell’ordine delle decine di migliaia di unità (fra cui, però, quasi nessun cristiano). Quindi il decreto Trump è semmai un ritorno alla norma e tutt’altro che straordinario.

La controversia principale riguarda il futuro della politica di accoglienza. Secondo le direttive del nuovo presidente, deve essere data la priorità alle richieste di asilo inoltrate da chi è perseguitato per motivi religiosi, oltre che politici. Le minoranze, non solo cristiane, ma anche musulmane sciite in terra sunnita o viceversa, o yazidi in Iraq, avranno la precedenza sui loro persecutori. Sembrerebbe solo buon senso, anche se per molti tutto questo è “razzismo”. Un’etichetta che deve essere a tutti i costi appiccicata al nuovo presidente repubblicano, a costo di sacrificare la realtà.

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By aidos