Fonte: Il Giornale d’Italia

Storia nostra e verità nascoste

Cronache dalla guerra civile

Le indagini di Giorgio Pisanò e le orribili vicende di Mosso Santa Maria

Di guerra civile e verità nascoste abbiamo parlato a lungo in questi anni durante i quali, quotidianamente, abbiamo tentato di raccontare ai nostri lettori vicende storiche obliate dai libri di storia. Il problema più grosso, lo abbiamo detto e lo ripetiamo, sono i libri scolastici: quelli cioè su cui si formano le menti degli uomini di domani. I quali buon senso vuole che si rendano edotti della verità storica e non di un racconto di parte, anche perché sono passati più di settant’anni e questa roba non si sopporta davvero più. Della guerra civile in Italia abbiamo parlato a lungo, eppure tantissime sono le vicende da riferire, da esaminare, da conoscere per comprendere la nostra storia, tutta. Il lavoro egregio di Giorgio Pisanò, inoltre, non può restare sepolto, questo è certo. Il fatto è che i suoi documentatissimi scritti, frutto di anni di ricerche nei luoghi, di reperimento di testimonianze, di analisi delle prove, non sono di facilissimo reperimento, figurarsi.


Mentre gli scaffali delle librerie pullulano di libri più o meno veritieri, questo prezioso tesoro firmato dal grande giornalista è diventato roba per collezionisti: difficile trovarlo, complicato averlo tra le mani per esaminarlo. E dunque laddove mancano le grandi case editrici, cerchiamo di porre rimedio su questo Giornale d’Italia, che ogni giorno è impegnato nella missione della ricerca e diffusione della verità. Siamo nel Biellese, oggi. I lettori più fedeli ed attenti ricorderanno che ci siamo già stati più volte. Una zona dove, riferisce Pisanò, la gente non aveva alcuna velleità se non quella di essere lasciata in pace. Era chiedere troppo. La notte del 17 febbraio 1944 i paesi di Cossato, Strona e Lessona, a est di Biella, videro l’ingresso di alcune pattuglie comuniste, arrivate per prelevare un certo numero di persone tra le più conosciute della zona. A comandare la “Piave” era Piero Maffei. Come si può vedere Pisanò fornisce nomi e cognomi. Agli ordini di costui, due comunisti, Ermanno Angioino e Edis Valle, prelevarono dodici persone, tra cui cinque donne, mentre una tredicesima venne uccisa nella sua abitazione, mentre ignaro apriva la porta di casa sua ai suoi assassini, che non si preoccuparono nemmeno del fatto che l’uomo tenesse in braccio il più piccolo dei suoi figli: una scarica di mitra, e il malcapitato si ritrovò a terra, cadavere. Si tratta di Enrico Carta, di Cossato. Fascisti e tedeschi in perlustrazione nella zona si scontrarono con i tre, mentre questi erano impegnati in un altro prelevamento di persone. Maffei, Angioino e Valle rimasero uccisi, un quarto uomo riuscì a fuggire e diede l’allarme. Riferisce testualmente Pisanò: “Nelle tasche di uno dei caduti venne trovato l’elenco delle persone che dovevano essere prelevate quella notte: trenta, tra le quali molti dei più noti industriali della zona. Nella versione che il Moscatelli dà dell’avvenimento, tutto ciò viene gratuitamente definito ‘un’azione contro le spie'”. In realtà si trattò di una spedizione punitiva vera e propria: secondo i partigiani il rastrellamento di civili sarebbe stato una “lezione” per tutti, visto che gli industriali del territorio lavoravano dietro ordinazioni effettuate da tedeschi. “Lavoravano”, precisiamo: cioè tiravano a campare, prendevano ordinazioni e realizzavano prodotti che vendevano. Figurarsi se per gli industriali del Biellese fosse importante da chi arrivava l’ordine: si lavora per vivere, o no? Fatto sta che l’impresa fallisce parzialmente, e così i partigiani decidono di dare “l’esempio” fucilando i dodici prigionieri. Erano le ore 12 del 18 febbraio, il fuoco contro i dodici civili venne esploso presso il cimitero di Mosso Santa Maria. Nemmeno i Sacramenti ricevettero, i dodici. Pisanò ce li elenca tutti, e noi ve li raccontiamo, uno dietro l’altro, affinché nessuno e nulla sia dimenticato: Carlo Botta, 59 anni e le sue due figlie Duilia (23 anni) e Gemma (21); Francesco Repole, un agricoltore 61enne; Raffaele Veronese, impiegato, 42 anni; Giuseppina Goi, operaia, 49; Ernesto Ottina, negoziante, 46 e sua moglie Tecla, 45; Leo Negro, commerciante, 46; Giovanni Maffei, agricoltore, 39; Sandro Tallia, 25 anni, commerciante; Palmira Graziola, 57 anni.

Gente normale, nessuno coinvolto con la Repubblica Sociale, anzi Ottina aveva fornito mezzi ai partigiani e aveva “preteso” di essere pagato: e così venne prelevato e assassinato proprio per dare un ulteriore esempio… Ma la tragedia di Mosso Santa Maria doveva ancora fare un’altra vittima. Il Comandante della Stazione dei Carabinieri, Alfonso Taverna, si suicidò con un colpo alla testa per il senso di colpa per non aver potuto impedire il massacro. Aveva 39 anni. Per rappresaglia, nei giorni successivi alcune squadre fasciste andarono a cercare i partigiani. Molti riuscirono a fuggire, ne vennero prelevati sette e vennero condotti al cimitero, e lì fucilati. Erano tutti giovanissimi, e ci si chiede perché si debba morire così, a 18 anni appena. La rappresaglia è una legge di guerra, e la guerra civile non fa eccezione. Ma quanto sangue versato… ecco i nomi dei sette giovani partigiani uccisi il 21 febbraio: Antonio Gavazzo,18 anni. Palmiro Carmelo, 18. Corrado Lanza, 18. Roberto Arrigoni, 18. Francesco Crestani, 21. Frank Bowes, neozelandese. Kenneth Osborne, australiano.

Troppo sangue. Davvero troppo. E ogni vita stroncata è una ferita aperta nella storia d’Italia, questo è certo. Però la verità va detta tutta. E dunque non può bastare il racconto che della vicenda fa Moscatelli, che non dice una parola sul rastrellamento e sulle tredici uccisioni ma parla soltanto della spedizione punitiva di fascisti e tedeschi contro i partigiani.

Ma non abbiamo finito, e ci mancherebbe. Appuntamento a domani, per un’altra brutta vicenda che farà male, ma che dobbiamo conoscere.

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Emma Moriconi

By aidos