Su Tempi ( articolo di Matteo Rigamonti) l’ex ministro Sacconi commenta il progetto partito dalla Cisl e presentato dalla maggioranza per una governance d’impresa partecipata dai lavoratori. «Più società e meno Stato, più collaborazione in azienda e meno centralizzazione contrattuale. Partecipazione ove ce ne siano le condizioni. Senza imporre nulla dall’alto, ma liberando la vitalità dell’impresa e del lavoro. »

Un tema, quello della partecipazione di rappresentanti dei lavoratori alla gestione dell’impresa, da sempre caro alla destra. Il Decreto sulla Socializzazione della Repubblica Sociale Italiana del 2 febbraio 1944 n. 375 riconobbe ai lavoratori diversi compiti nelle imprese a seconda del tipo di capitale, incluso il ruolo di partecipare alle assemblee dei soci e di coadiuvare l’imprenditore nella gestione aziendale. Il consiglio di amministrazione includeva rappresentanti del capitale e dei lavoratori, ma in caso di parità, il voto del capo dell’impresa aveva la precedenza.

Nell’immediato dopoguerra, la “proposta Morandi” (dal nome del socialista a quel tempo Ministro dell’Industria) nel 1946 riguardava la creazione di “consigli di gestione” per far partecipare i lavoratori all’indirizzo dell’impresa, migliorare l’organizzazione e la sicurezza dei lavoratori e contribuire alla ricostruzione industriale. L’articolo 1 della proposta definiva gli obiettivi dei consigli di gestione. Rimasero lettera morta, tant’è che non sono state emanate le leggi che avrebbero dovuto stabilire i modi ed i limiti della indicata partecipazione.

Le direttive europee n. 86/2001 e 72/2003 prevedono il coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni delle società. In Italia, ciò è stato attuato dal centrodestra con il d.lgs 188/2005. Tuttavia tale direttiva non è stata ampiamente adottata e ciò ha limitato l’efficacia del coinvolgimento dei lavoratori. Il centrodestra nel 2003 ci ha riprovato e con la legge n. 350 aveva istituito un fondo per incentivare la partecipazione dei lavoratori, ma nel 2005 è stata dichiarata incostituzionale. La Corte costituzionale ha demandato al legislatore la predisposizione di regole che comportino il coinvolgimento su base regionale.

Arriviamo così al 2012. La “Riforma Fornero” (Legge 28 giugno 2012, n. 92) delegò il governo per adottare uno o più decreti finalizzati a favorire le forme di coinvolgimento dei lavoratori nell’impresa, attivate attraverso la stipulazione di un contratto collettivo aziendale, nel rispetto di principi e criteri direttivi previsti dalla legge (art. 4 L. 92/2012). La delega rimase inadempiuta per l’opposizione delle associazioni datoriali – convinte che ciò costituirebbe una violazione dei sani princìpi economici – e della CGIL.

Nel 2016 furono poi i sindacati CGIL-CISL-UIL a redigere un documento che prevedeva la partecipazione dei lavoratori e la collocava tra i tre pilastri dell’auspicato “moderno sistema di relazioni industriali”. Nel 2018 (Governi Letta-Renzi-Gentiloni), fu il PD a bloccare l’iter di un nuovo provvedimento su input (pensate un po’) di Confindustria.

Alla base di questi ideali che si protraggono – almeno sulla carta – da oltre cento anni (già Giolitti nel 1921 pensò alle c.d. “commissioni di controllo” composte da lavoratori che sarebbero risultate assegnatarie di specifiche competenze di informazione e consultazione) si può pensare vi sia l’intento di collaborazione tra capitale e lavoro; tra lavoratori, management e proprietà aziendale per perseguire un obiettivo comune.

Ma come riconosce lo stesso Matteo Rigamonti  la partecipazione dei lavoratori è un tema delicato. Negli ultimi decenni in Italia, le relazioni collettive di lavoro sono state caratterizzate da un approccio conflittuale, soprattutto nelle aziende dove era preponderante la presenza della sinistra sindacale. Introdurre elementi partecipativi in un ambiente conflittuale sarebbe controproducente oltre che pericoloso. Ma il tema è quanto mai attuale, non a caso è stato uno dei cardini sui quali i sindacati bancari riconosciuti dall’ABI hanno posto la centralità. Nel nuovo testo del CCNL si riconosce che la partecipazione dei dipendenti in varie forme contribuisce alla produttività, al miglioramento dell’ambiente di lavoro e allo sviluppo personale. Propone l’adozione di forme sperimentali di partecipazione per promuovere il benessere sul posto di lavoro, ambienti inclusivi e una maggiore competitività. Tuttavia, non ci sono riferimenti espliciti all’apertura del consiglio di amministrazione ai dipendenti e, senza obblighi e sanzioni, la proposta non potrà che restare lettera morta.

Molta fuffa e poca sostanza quindi. Il tema vero è che, come riconosce lo stesso Matteo Rigamonti, nel momento in cui la Cisl rilancia la partecipazione dei lavoratori tramite la raccolta firme per una proposta di legge popolare, sceglie di rilanciare anche la sua identità di sindacato cooperativo opposto alla Cgil. 

Del resto, la partecipazione, o meglio la presenza dei rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione di alcune strutture come Fondi Pensioni e Casse Mutue già ci sono e mettono in evidenza (e mi riferisco in particolare ad #UniCredit) la difficoltà (l’incapacità?) di partecipare e rendere le strutture efficienti e produttive anche per i lavoratori. Alla fine si trasforma nel più classico dei poltronifici per i sindacalisti. L’importante è metterci la bandierina. Se poi le persone messe lì a rappresentare i lavoratori abbiano o meno le capacità per farlo è altra cosa. Ma in fondo è giusto così perché ai lavoratori poco o nulla importa. Basti vedere le problematiche legate alla gestione del Fondo Pensione (zainettatura, rendimenti, decurtazioni delle rendite….) che sono scaturite in diverse denunce. O il fatto che gli RLS siano “fittiziamente” eletti dai lavoratori (tanti nominativi da eleggere quanti sono i posti disponibili), così come l’elezione “blindata” per i componenti CdA di UniCA nominati dai lavoratori dove si attribuisce il voto plurimo (un lavoratore, otto voti. Neppure in Corea del Nord sono tanto solerti). La paura che dalla “governance partecipata” non ne verrà nulla di buono è quindi più che legittima, soprattutto se non sarà soggetta a normative specifiche di Legge ma ad un semplice “accordo privato tra le parti”. I nostri sindacABI hanno già ampiamente dimostrato di non essere in tal senso affidabili (l’ultimo contratto di categoria è lì a ricordarcelo).

l’impresa va concepita in maniera istituzionale, non secondo la categoria del contratto di diritto privato, ma secondo, invece, quella visione finalistica per cui tutti coloro, che collaborano ad una comunità di lavoro, sono membri, sia pure con diverse funzioni, di quest’unica comunità che trascende l’interesse dei singoli”.

Giorgio La Pira – Padre Costituente – 1947

By aidos