“Uccidere un fascista non è un reato!”

La storia dimenticata di Angelo Pistolesi

"Uccidere un fascista non è un reato!"

Era una fredda mattina fra Natale e Capodanno. Era il 28 dicembre del 1977 e un padre di famiglia, missino, veniva ammazzato da un killer professionista, pagando così per aver partecipato al comizio di Sandro Saccucci a Sezze Romano in cui rimase ucciso un “compagno”.

La sua è certamente la meno conosciuta fra le morti dimenticate degli anni di piombo
Quella di Angelo Pistolesi è la più sconosciuta fra le storie dimenticate degli anni di piombo.
Ammazzato a sangue freddo, su un marciapiede di Roma, quando nell’aria si sentiva ancora il profumo del Natale, senza riuscire a vedere l’anno nuovo arrivare, il 28 Dicembre del 1977.

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Aveva 31 anni Angelo. Era missino. Abitava al quartiere Portuense. Niente grilli per la testa. Faceva l’impiegato all’“Enel”. Era sposato, due figli. Di certo non un nemico del proletariato, di quelli così invisi ai “compagni”, perché ne faceva parte lui stesso. Ma questo non basterà a salvarlo. In quegli anni le idee erano molte e ben confuse. Così confuse da non fermarsi neppure davanti ad un padre di famiglia.
La sua morte è indissolubilmente legata ad un episodio avvenuto un anno prima , all’alba delle elezioni politiche del 1976, precisamente il 27 maggio. Quel pomeriggio di primavera, in una cittadina laziale alle porte di Latina, Sezze Romano,  è fissato  il comizio di uno dei personaggi più controversi del MSI: il deputato Sandro Saccucci. Paracadutista della Folgore, era diventato “famoso” fra i militanti della destra romana perché accusato di aver partecipato al tentato golpe del Principe Junio Valerio Borghese nella notte tra il 7 e l’8 Dicembre del 1970, la cosiddetta “notte della Madonna”. Alla fine, quella vicenda era finita con un generico “tutti colpevoli, nessuno colpevole” e Saccucci ne era uscito pulito. Però aveva deciso di lasciare i parà e dedicarsi a tempo pieno alla politica. Ma cosa c’entrava un ex militare deputato del Movimento Sociale con un impiegato missino ammazzato al Portuense? Semplice: Pistolesi era fra i “fedelissimi” di Saccucci.
La scelta di inserire Sezze Romano nel tour elettorale non era stata di certo fra le più felici. Infatti, nella tradizionalmente “nerissima” provincia di Littoria, Sezze, era una vera e propria enclave  comunista. Alle precedenti elezioni, il PCI aveva vinto a mani basse, con uno schiacciante 54%. Il giorno del comizio, Saccucci arriva nella cittadina insieme ad Angelo e ad un’altra manciata di camerati. Piazza “IV Novembre” è semideserta e la metà dei partecipati è composta da “compagni “che si sono dati appuntamento lì proprio per impedire la “provocazione” dei loro avversari politici.
Quando l’ex parà inizia a parlare, la tensione è alle stelle. I missini sul palco si preparano ad uno scontro sicuro. Hanno i bastoni. Spunta anche qualche pistola. Saccucci parla, imperterrito. “Noi siamo il partito delle mani pulite” (usa un’espressione che, senza saperlo, farà la storia della politica italiana dell’ultimo decennio del ‘900). A questo punto la piazza inizia con urla, insulti, sputi, minacce. L’oratore spara un colpo in aria: “non volete sentirmi con le buone? Mi sentirete comunque”.  Scoppia il delirio. I camerati sono in netta minoranza, si rendono conto di averla fatta troppo grossa. Saccucci e gli altri scappano in macchina. Angelo non ha la pistola, è disarmato, non ha neppure un bastone. Non è un violento. È soltanto uno di quei ragazzi innamorati del MSI, di quelli che la politica la fanno solo per passione. Ma questo non basterà a salvarlo.
 Quando le automobili arrivano alle porte della cittadina, nella zona chiamata “ferro di cavallo”, le scaramucce si trasformano in tragedia. Parte una fitta sassaiola contro le macchine dei missini. Una grossa pietra sfonda un parabrezza.  Dalle auto, partono due colpi. Uno,  esploso dalla macchina di Saccucci, ferisce alla gamba Antonio Spirito, un militante di Lotta Continua. Un altro, partito quasi in contemporanea, raggiunge al torace un altro ragazzo, Luigi Di Rosa.  Morirà in ospedale poche ore dopo.
La fuga dei missini non dura molto. Appena fuori Latina, la Polizia blocca alcune macchine. Vengono portati in Questura. La prassi è la solita: interrogatori e guanti di paraffina. Tre dei fermati vengono rilasciati subito. Non hanno sparato. Uno di loro è proprio Pistolesi. Ma, anche questo, non basterà a salvarlo.

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 I responsabili  della sparatoria non parlano, ma le indagini vanno avanti lo stesso. Giorgio Almirante, segretario del Movimento Sociale, si vede costretto a punire tutti indistintamente. Gli organizzatori e i partecipanti al comizio di Sezze vengono espulsi in blocco dal partito e Saccucci decade da ogni incarico.
Pochi giorni dopo, il 5 giugno, la Camera dei Deputati delibera l’autorizzazione a procedere per l’arresto di  Sandro Saccucci. C’è anche un secondo mandato di cattura:  è per un altro dei militanti coinvolti nei fatti di Sezze Romano, Pietro Allatta.  Tenta la fuga  e raggiunge Catania. Viene arrestato quasi subito, processato e condannato in primo grado a tredici anni di reclusione per omicidio. L’ex parà, invece, riesce a scappare a Londra.  Fermato dalla polizia inglese, viene accompagnato alla frontiera per l’estradizione. Ma, senza alcuna logica spiegazione, riesce a fuggire in Argentina. Con un mandato di cattura internazionale che gli pende sulla testa, il deputato missino viene condannato in contumacia a dodici anni di carcere per “concorso morale in omicidio e tentato omicidio”. Non rimetterà più piede sul suolo italiano.
In Italia, però, rimangono i bersagli più facili. Quei militanti, dichiarati tutti “non colpevoli”, ma che a Sezze Romano c’erano. Alle frange più criminali della sinistra extra-parlamentare dell’epoca, questo basta per decretare una sentenza di morte. Angelo, tra l’altro, non riesce a scrollarsi di dosso la nomea di “braccio destro” di Saccucci, ritenuto da tutti il responsabile morale e materiale dell’episodio. L’essere stato espulso dal partito significa puntare i riflettori su di lui ed isolarlo, fino a lasciarlo completamente  solo e senza alcuna protezione.
Angelo però, nell’anno e mezzo che segue a quel tragico comizio, continua a fare la sua vita. Non ha nulla da nascondere. Nulla di cui vergognarsi. Lui, da quella storia, ne era uscito pulito. Non riuscirà a salvarlo.
Il 28 Dicembre del 1977, quando l’anno del sequestro Moro era già alle porte, Angelo Pistolesi esce di casa, come ogni mattina, intorno alle 8, per andare a lavorare. Ad aspettarlo, in via Statella 7, a metà strada fra la Gianicolense e la Magliana, c’è un killer a volto scoperto. Un professionista. Forse più di uno. Questo non si saprà mai. Vengono sparati tre colpi che lo colpiscono in pieno petto. Tre centri. Tutti mortali. Uno perfora l’aorta. Non c’è scampo. Angelo cade a terra. Morirà dissanguato prima di arrivare in ospedale. L’assassino, finito il lavoro, si toglie i guanti, li getta nel cortile del condominio e scappa su una vecchia Fiat 600, rubata  a Monteverde il giorno prima.
L’omicidio viene rivendicato da un gruppo dal nome inquietante: “Nuovi Partigiani”. Visto che non c’erano più repubblichini da fare fuori in montagna, era meglio scendere a valle e concentrarsi sui militanti del MSI. Anche se padri di famiglia.
Angelo, candendo esanime su quel marciapiede del quartiere Portuense, lascia una vedova bambina e due figli. La sua storia è tragicamente simile a quella di Emanuele Zilli, il militante operaio di Pavia morto il 5 Novembre del 1973, uscendo dal lavoro, in un misterioso incidente, rimasto senza colpevoli. Anche lui missino, anche lui padre e marito, anche lui proletario, anche lui accusato di aver colpito un militante di Lotta Continua con un colpo di pistola e poi subito prosciolto da tutte le accuse, senza che questo impedisse alla sinistra extraparlamentare di condannarlo a morte. Angelo, come Emanuele, dimenticati perché considerati vittime di faide interne al MSI. Come Mario Zicchieri. Angelo, Emanuele, Mario come i fratelli Stefano e Virgilio Mattei, arsi vivi nel rogo di Primavalle, quello definito da Potere Operaio “un incendio a porte chiuse”. Tutti veri figli del popolo uccisi dai difensori borghesi del proletariato dalla pistola facile.
Angelo Pistolesi è morto senza alcuna ragione, esattamente 35 anni fa. Il suo assassino non è mai stato individuato. I magistrati non sono riusciti a trovare un “pentito” disponibile a fare chiarezza. Come Valerio Morucci per l’omicidio Zicchieri. Per il suo omicidio non è mai stato celebrato un processo. Perché, all’epoca lo slogan più in voga fra le file dei militanti di sinistra, era: “uccidere un fascista non è un reato”. Ecco, questa vicenda ne è la più assoluta dimostrazione.

Quella di Angelo Pistolesi è la più sconosciuta fra le storie dimenticate degli anni di piombo.Ammazzato a sangue freddo, su un marciapiede di Roma, quando nell’aria si sentiva ancora il profumo del Natale, senza riuscire a vedere l’anno nuovo arrivare, il 28 Dicembre del 1977.Aveva 31 anni Angelo. Era missino. Abitava al quartiere Portuense. Niente grilli per la testa. Faceva l’impiegato all’“Enel”. Era sposato, due figli. Di certo non un nemico del proletariato, di quelli così invisi ai “compagni”, perché ne faceva parte lui stesso. Ma questo non basterà a salvarlo. In quegli anni le idee erano molte e ben confuse. Così confuse da non fermarsi neppure davanti ad un padre di famiglia. La sua morte è indissolubilmente legata ad un episodio avvenuto un anno prima , all’alba delle elezioni politiche del 1976, precisamente il 27 maggio. Quel pomeriggio di primavera, in una cittadina laziale alle porte di Latina, Sezze Romano,  è fissato  il comizio di uno dei personaggi più controversi del MSI: il deputato Sandro Saccucci. Paracadutista della Folgore, era diventato “famoso” fra i militanti della destra romana perché accusato di aver partecipato al tentato golpe del Principe Junio Valerio Borghese nella notte tra il 7 e l’8 Dicembre del 1970, la cosiddetta “notte della Madonna”. Alla fine, quella vicenda era finita con un generico “tutti colpevoli, nessuno colpevole” e Saccucci ne era uscito pulito. Però aveva deciso di lasciare i parà e dedicarsi a tempo pieno alla politica. Ma cosa c’entrava un ex militare deputato del Movimento Sociale con un impiegato missino ammazzato al Portuense? Semplice: Pistolesi era fra i “fedelissimi” di Saccucci.La scelta di inserire Sezze Romano nel tour elettorale non era stata di certo fra le più felici. Infatti, nella tradizionalmente “nerissima” provincia di Littoria, Sezze, era una vera e propria enclave  comunista. Alle precedenti elezioni, il PCI aveva vinto a mani basse, con uno schiacciante 54%. Il giorno del comizio, Saccucci arriva nella cittadina insieme ad Angelo e ad un’altra manciata di camerati. Piazza “IV Novembre” è semideserta e la metà dei partecipati è composta da “compagni “che si sono dati appuntamento lì proprio per impedire la “provocazione” dei loro avversari politici. Quando l’ex parà inizia a parlare, la tensione è alle stelle. I missini sul palco si preparano ad uno scontro sicuro. Hanno i bastoni. Spunta anche qualche pistola. Saccucci parla, imperterrito. “Noi siamo il partito delle mani pulite” (usa un’espressione che, senza saperlo, farà la storia della politica italiana dell’ultimo decennio del ‘900). A questo punto la piazza inizia con urla, insulti, sputi, minacce. L’oratore spara un colpo in aria: “non volete sentirmi con le buone? Mi sentirete comunque”.  Scoppia il delirio. I camerati sono in netta minoranza, si rendono conto di averla fatta troppo grossa. Saccucci e gli altri scappano in macchina. Angelo non ha la pistola, è disarmato, non ha neppure un bastone. Non è un violento. È soltanto uno di quei ragazzi innamorati del MSI, di quelli che la politica la fanno solo per passione. Ma questo non basterà a salvarlo. Quando le automobili arrivano alle porte della cittadina, nella zona chiamata “ferro di cavallo”, le scaramucce si trasformano in tragedia. Parte una fitta sassaiola contro le macchine dei missini. Una grossa pietra sfonda un parabrezza.  Dalle auto, partono due colpi. Uno,  esploso dalla macchina di Saccucci, ferisce alla gamba Antonio Spirito, un militante di Lotta Continua. Un altro, partito quasi in contemporanea, raggiunge al torace un altro ragazzo, Luigi Di Rosa.  Morirà in ospedale poche ore dopo. La fuga dei missini non dura molto. Appena fuori Latina, la Polizia blocca alcune macchine. Vengono portati in Questura. La prassi è la solita: interrogatori e guanti di paraffina. Tre dei fermati vengono rilasciati subito. Non hanno sparato. Uno di loro è proprio Pistolesi. Ma, anche questo, non basterà a salvarlo.  I responsabili  della sparatoria non parlano, ma le indagini vanno avanti lo stesso. Giorgio Almirante, segretario del Movimento Sociale, si vede costretto a punire tutti indistintamente. Gli organizzatori e i partecipanti al comizio di Sezze vengono espulsi in blocco dal partito e Saccucci decade da ogni incarico. Pochi giorni dopo, il 5 giugno, la Camera dei Deputati delibera l’autorizzazione a procedere per l’arresto di  Sandro Saccucci. C’è anche un secondo mandato di cattura:  è per un altro dei militanti coinvolti nei fatti di Sezze Romano, Pietro Allatta.  Tenta la fuga  e raggiunge Catania. Viene arrestato quasi subito, processato e condannato in primo grado a tredici anni di reclusione per omicidio. L’ex parà, invece, riesce a scappare a Londra.  Fermato dalla polizia inglese, viene accompagnato alla frontiera per l’estradizione. Ma, senza alcuna logica spiegazione, riesce a fuggire in Argentina. Con un mandato di cattura internazionale che gli pende sulla testa, il deputato missino viene condannato in contumacia a dodici anni di carcere per “concorso morale in omicidio e tentato omicidio”. Non rimetterà più piede sul suolo italiano.In Italia, però, rimangono i bersagli più facili. Quei militanti, dichiarati tutti “non colpevoli”, ma che a Sezze Romano c’erano. Alle frange più criminali della sinistra extra-parlamentare dell’epoca, questo basta per decretare una sentenza di morte. Angelo, tra l’altro, non riesce a scrollarsi di dosso la nomea di “braccio destro” di Saccucci, ritenuto da tutti il responsabile morale e materiale dell’episodio. L’essere stato espulso dal partito significa puntare i riflettori su di lui ed isolarlo, fino a lasciarlo completamente  solo e senza alcuna protezione.Angelo però, nell’anno e mezzo che segue a quel tragico comizio, continua a fare la sua vita. Non ha nulla da nascondere. Nulla di cui vergognarsi. Lui, da quella storia, ne era uscito pulito. Non riuscirà a salvarlo.Il 28 Dicembre del 1977, quando l’anno del sequestro Moro era già alle porte, Angelo Pistolesi esce di casa, come ogni mattina, intorno alle 8, per andare a lavorare. Ad aspettarlo, in via Statella 7, a metà strada fra la Gianicolense e la Magliana, c’è un killer a volto scoperto. Un professionista. Forse più di uno. Questo non si saprà mai. Vengono sparati tre colpi che lo colpiscono in pieno petto. Tre centri. Tutti mortali. Uno perfora l’aorta. Non c’è scampo. Angelo cade a terra. Morirà dissanguato prima di arrivare in ospedale. L’assassino, finito il lavoro, si toglie i guanti, li getta nel cortile del condominio e scappa su una vecchia Fiat 600, rubata  a Monteverde il giorno prima. L’omicidio viene rivendicato da un gruppo dal nome inquietante: “Nuovi Partigiani”. Visto che non c’erano più repubblichini da fare fuori in montagna, era meglio scendere a valle e concentrarsi sui militanti del MSI. Anche se padri di famiglia.Angelo, candendo esanime su quel marciapiede del quartiere Portuense, lascia una vedova bambina e due figli. La sua storia è tragicamente simile a quella di Emanuele Zilli, il militante operaio di Pavia morto il 5 Novembre del 1973, uscendo dal lavoro, in un misterioso incidente, rimasto senza colpevoli. Anche lui missino, anche lui padre e marito, anche lui proletario, anche lui accusato di aver colpito un militante di Lotta Continua con un colpo di pistola e poi subito prosciolto da tutte le accuse, senza che questo impedisse alla sinistra extraparlamentare di condannarlo a morte. Angelo, come Emanuele, dimenticati perché considerati vittime di faide interne al MSI. Come Mario Zicchieri. Angelo, Emanuele, Mario come i fratelli Stefano e Virgilio Mattei, arsi vivi nel rogo di Primavalle, quello definito da Potere Operaio “un incendio a porte chiuse”. Tutti veri figli del popolo uccisi dai difensori borghesi del proletariato dalla pistola facile.Angelo Pistolesi è morto senza alcuna ragione, esattamente 35 anni fa. Il suo assassino non è mai stato individuato. I magistrati non sono riusciti a trovare un “pentito” disponibile a fare chiarezza. Come Valerio Morucci per l’omicidio Zicchieri. Per il suo omicidio non è mai stato celebrato un processo. Perché, all’epoca lo slogan più in voga fra le file dei militanti di sinistra, era: “uccidere un fascista non è un reato”. Ecco, questa vicenda ne è la più assoluta dimostrazione.

Grazia Bontà

By aidos

One thought on “Angelo Pistolesi: la più sconosciuta fra le storie dimenticate degli anni di piombo”
  1. Sono tanti i camerati caduti perché “sparare a un fascista non è reato”. Molti, troppi senza neppure uno straccio di processo a paventare una sorta di pallida giustizia. Oggi avrebbe un senso ? Non lo so.
    Qualcuno ha detto che a volte la vendetta e la giustizia si sovrappongono, un altro ancora che con il passare degli anni la vendetta è la più sicura forma di giustizia.
    Quel che è certo, è che quei morti non hanno avuto né vendetta né tantomeno giustizia !

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