I questi giorni sui principali media nazionali si rincorrono le notizie dell’imminente chiusura dello  stabilimento piemontese della #Embraco  con relativa delocalizzazione del lavoro nel loro impianto già presente in Slovacchia.

A rischio sono cinquecento posti di lavoro.

I Sindacati, per quanto ovvio, si sono da subito impegnati a difendere il futuro di queste famiglie e di un’azienda che non è certamente improduttiva.

Anche il Governo si è svegliato da un torpore infinito e sembra aver scoperto solo oggi il fenomeno del “dumping sociale”. Ora accusano la Slovacchia, tramite Bruxelles, di un utilizzo improprio di aiuti di Stato a danno di altri stati membri.

Ma la Embraco non è la prima (e non sarà, purtroppo per noi, l’ultima) ad aver delocalizzato la produzione là dove le leve fiscali ed il costo del lavoro impattano in maniera minore sul conto economico.

L’Italia è tra i maggiori contribuenti della comunità europea; i miliardi di euro che versiamo finiscono in buona parte ai paesi dell’ex blocco sovietico che li utilizzano (anche) per defiscalizzare il costo del lavoro.

Quella della Embraco sarebbe una storia come altre, se non fosse per le centinaia di lavoratori che dall’oggi al domani rischiano di perdere la propria serenità e la possibilità di offrire un futuro sereno a se stessi ed ai propri figli.

Ma a praticare il dumping sociale non sono solo le imprese; anche le banche lo fanno da anni. Prendiamo per esempio #Unicredit dove, gran parte delle attività dell’Ufficio Estero (Incassi, bonifici estero  e Portafoglio) sono migrati, o stanno per migrare, in Romania. E prima di questo era già toccato ad altri uffici come, per esempio, la  Legal Services Documentation.

Da una parte #Unicredit dichiara che “occorre lavorare tutti insieme“ per garantire una rapida ripresa del Paese, dall’altra pratica il dumping sociale favorendo l’occupazione dei giovani là dove la mano d’opera costa meno. La volontà di uno smantellamento quasi “scientifico” di alcune aziende del Gruppo bancario da parte dei suoi vertici  appare ormai chiara. È una politica che parte da lontano, dalla fine degli anni duemila  e che ha raggiunto l’apice nel biennio 2012-2013 con le esternalizzazioni di HR SSC (servizi amministrativi del Personale) confluiti in HP (che ha poi delocalizzato parte delle attività in Polonia) e di Invoices Management confluiti in Accenture (che poi ha delocalizzato alcune attività alle Mauritius). A seguire il trasferimento di alcune attività informatiche e di back office nella filiale rumena di UniCredit Business Integrated Solutions.

E’ evidente che Unicredit voglia proseguire sulla strada dello svuotamento di attività di rilevante contenuto professionale in Italia per portarle all’estero con l’obiettivo, neanche troppo celato, di abbattere non già i costi, ma il costo del lavoro.

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In un momento in cui il nostro Paese ha la percentuale di disoccupazione tra i giovani più alta dell’Unione Europea, la risposta “sociale” di Unicredit è la creazione di occupazione in Romania.

Non solo.

La banca si è resa disponibile per un impegno diretto e concreto nello sviluppo delle capacità informatiche delle università rumene (con tanto di accordo sottoscritto con il loro Governo) in un rapporto di tipo “domanda e offerta”, in cui il sistema bancario rappresenta il cliente, ed il mondo universitario, l’offerente. Sì, purtroppo è così: le nostre banche investono negli atenei rumeni e non nei nostri.

UBIS, società informatica del gruppo UniCredit, ha già assunto centinaia di giovani informatici nella filiale rumena a scapito dei nostri neo laureati.

Ebbene tra le organizzazioni sindacali non si è levata voce per battersi affinché anche le lavorazione di quest’ultimo ufficio (l’Estero) potessero rimanere in Italia; si vuole forzare l’uscita in massa di colleghi con la scusa che di lavoro “ghe né minga” e poi lo stesso si manda in Romania?

Fra l’altro qualche sindacalista milanese rintuzzato sulla questione ha ribadito che “noi siamo IL sindacato e dobbiamo difendere I lavoratori, tutti i lavoratori“. Certo, è ovvio, ma i lavoratori italiani perché altrimenti non si spiega la posizione di chiusura al trasferiemnto dei sindacati dell’Embraco.

Fra l’altro, alcuni lavoratori italiani che fanno la spola con la Romania per pianificare il trasferimento delle attività e formarne i lavoratori, fanno sapere che là i sindacati non esistono proprio.

Ma a quanto pare neanche qui in Italì.

 

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By aidos